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Il flusso di pensieri di una mosca bianca.

mercoledì 21 maggio 2014

XXI Maggio MMCDXCI – Reprimere


угнетение
{oppressione} 
[ogni nota è scritta in russo]
Non mi sentivo così da quando smisi di prendere lezioni di pianoforte. Quando mio padre lo seppe, i suoi nervi cedettero. Non trovavo la forza di pigiare i tasti pesati del piano, e l'ultima volta che lo feci mi chiese di smettere di uccidere la musica. "Uccidere la  musica" mi disse, portandosi le mani fra i capelli. Mi afferrò con forza dallo sgabello, ordinandomi di tornare in camera, prendere le medicine e rimanere a letto per il resto dell'estate. La settimana dopo vendemmo il pianoforte.
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È un onore poter fare lezione con lei, Mister Wolfwood.
Uno dei saloni barocchi più belli di sempre.
Affreschi naturalistici mi osservano, mentre varco la sala. E poi quel pianoforte al centro, che mi rende statica, mentre tutto intorno a me, come un susseguirsi d'immagini, muta costantemente. Sono a New Moscow, dopo Xinhion, subito dopo New London. Sono in tanti posti, eppure ancora qui. La mia mano non si avvicina a quello che sembra essere un Petrof, immacolato, restaurato. Lo osservo e basta, non merita il mio tocco.
Abbiamo portato un Petrof nell'auditorium, più tardi posso mostrarglielo, se lo desidera.
No, non lo è, dunque. Devo essermi arrugginita da quando papà ha venduto il piano. Adesso a casa ho solo un modesto Yamaha a muro. Ricordo ancora quel bellissimo Steinway&Sons nel grande salone, che lasciava l'appartamento sotto i miei occhi come se fosse ieri. Vengo scrutata senza invadenza dal mio nuovo maestro. Mi siedo: le mie mani esitano, tremano. Guardo il mio maestro, non dico una sola parola, solo, attendo che lui mi conceda di poter apporre le mani sui tasti. I capelli sono legati malamente in uno chignon lasciano cadere qualche ciuffo, per celare pudicamente il taglio che macchia la mia pelle.

Ho paura d'iniziare.
Le mie dita filiformi si poggiano sui tasti pesati dello strumento. Comincio lentamente. Ho scelto il pezzo che ho suonato l'ultima volta, prima che mio padre decidesse di portarmi via tutto. La prima battuta è leggiadra ma carica di malinconia al tempo stesso. Non mi rendi felice, mi sento come se assorbissi ogni singola vibrazione. Non penso a nulla: lo sto eseguendo per te, papà. Vorrei urlare, gridare di smetterla di togliermi tutto quello che amo, di smetterla di ordinarmi di stare bene, perché semplicemente, io non posso essere la figlia perfetta. Sono la figlia malata, l'unica mosca bianca che hai, l'unica che darebbe la vita per assecondarti. Ma questo non basta, no, non ti basta proprio. Non  riesco a far uscire tutto quello che vorrei dirti, un divieto auto imposto, l'incapacità di esprimermi; un muro costruito nel tempo, dalla nascita fino al momento in cui sono qui, a premere quei tasti pesati, dopo tanto tempo. Sento la musica risuonare in tutta la stanza, ma non dentro di me. Apro gli occhi e in un lampo, per paura, ritiro il piede dal pedale, stroncando sullo scemare l'accordo finale. Non è una buona esecuzione, non è abbastanza per te, papà. Ritiro le mani. Accanto a me non ci sei più, ma solo Lars Wolfwood, il riflesso crepato della tua figura.

Dovrà esercitarsi molto, ma sembra avere le qualità giuste per essere una buona pianista.
Tu non mi hai mai spronato a continuare, volevi solo che io fossi lo specchio perfetto della tua persona.
Sicura, sprezzante, autoritaria.
Io sono
Impacciata, ingenua, mite.

Se dovrò esercitarmi su Chopin, lo farò. Se preferirà Liszt, m'impegnerò.
Ho scelto, ed è una scelta dettata dal mio volere, e non dal tuo. Riprenderò a suonare e ti dimostrerò che ti sbagliavi.
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Distolgo un attimo lo sguardo, per osservare ancora la sala. Lars Wolfwood continua ad osservarmi.
Qualcosa le crea disagio, Mr. Wolfwood? 
Lui socchiude appena gli occhi, come se riflettesse.
Nulla. Mi ha ricordato una persona che non vedevo da tempo.
Mi porge il braccio, per mostrarmi i giardini di notte, illuminati dalla flebile luce lunare che si nasconde fra le nubi. Il discorso decade velocemente, lasciando spazio ad altro. La compostezza di Mr. Wolfwood è sicuramente quello che mi impone di regolarmi quando avendo una breve conversazione gli racconto di Siegfried. Ma lo charme e il contegno non bastano per celare una reazione di sorpresa quando descrivo l'ultimo incontro con lui.
Non deve denunciarlo.
Mi chiede, quasi m'impone con tono serio, nascondendo il tutto con gentilezza. Mi fermo per un attimo, gli occhi puntati su di lui, per cogliere qualsiasi mutamento nella sua espressione.
Mi guardi, signor Wolfwood.
Le sue iridi puntate sullo zigomo tumefatto.
  Se non me ne importasse, l'avrei già fatto.
Inizia a farmi diverse domande, è chiaro ormai che lui lo conosca, ed io voglio sapere di più. Lui, d'altro canto, cerca di proteggerlo, ma sa che io non sono una stupida. Io so che per qualche ragione Siegfried non vuole svelarmi la sua identità.

"Mille violini stanno sul palmo della mia mano". Così mi ha detto, una sera. Quando gli ho chiesto se si trattasse di una filastrocca, ha inveito contro di me.
Il discreto Lars Wolfwood è come squilibrato, preso in contropiede. Anche se è un abile dissimulatore.
Ha parlato di lui anche con qualcun altro? Non potrebbe trattarsi semplicemente di una persona riservata?
Le sue domande non sono altro che conferme per me.
 Mi sono limitata a parlarne con lei, Mister Wolfwood.
Una breve pausa per inumidirmi le labbra screpolate. Un'ultima raccomandazione per avere almeno un pizzico della sua fiducia.
La prego di non proferire parola con nessuno.
Tanti pensieri mi balenano in testa. Una persona riservata non nasconde la sua identità.
Mi lascerei convincere facilmente se non avessi ancora i segni sul viso della riservatezza di questo ragazzo.
 Ripenso agli occhi di Siegfried e al suo sguardo invadente: se potessi, glieli strapperei via. Solo una domanda mi fa ritornare ai giardini.
Desidera che ne parli direttamente con lui?
Ho giocato bene le mie carte dunque.
Non ho intenzione di aggiungere altro, anche se..

[la nota s'interrompe, nessuna iniziale è apposta alla fine del foglio]




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